Quando ci svegliamo Sara è nervosa.
Ci spiega la nottata. Siamo
abbastanza sicuri che si sia sognata tutto ma qualcosa nel suo
racconto ci fa ringraziare segretamente di non avere altre notti da
passare in quella casa. Ad essere ottimisti poteva anche essere
un'intossicazione da metano causata dalla stufa. Ma nel dubbio.
Chiudiamo
le valigie e partiamo per l'ultima escursione: quartiere ebraico.
Come
in tutte le vacanze il giorno in cui devi ripartire hai finalmente
appreso i misteri del trasporto pubblico locale. Ci mettiamo poco.
Facciamo i turisti seri alla sinagoga (pedinando una scolaresca
italiana con guida).
Ma
questa è solo cultura. Il nostro interesse maggiore emerge quando
riusciamo a uscire e dirigerci verso il ristorante ebraico-ungherese
che avevamo trovato chiuso sabato. La camminata è lunga perché ci
si ritrova su un lato mai visto prima del quartiere ebraico e per
quanto Sara e Aurora non ci stiano capendo nulla fanno finta di
niente. A nulla valgono proposte mie e di Alessandro di chiedere a
qualcuno. E nemmeno quando un tizio del banchetto dei bus turistici
si avvicina e chiede in perfetto italiano “posso esservi d'aiuto?”
loro mollano l'osso. Per la cronaca eravamo fermi davanti ad un
incrocio e si fissava la cartina con aria smarrita domandandosi
perché la via dove ci trovavamo si fosse improvvisamente spostata di
2 km più in là.
Alla
fine le nostre eroine, testarde come il meteorite che ha sterminato i
dinosauri, trovano la strada e quindi il ristorante.
La
guida recita: “Un posto accogliente a conduzione
familiare, se riuscite a non far caso alle tovaglie a quadroni rossi
sarete conquistati dalla cucina e dalla simpatia del titolare. Un
locale molto rustico andateci preparati”
quello che ci
troviamo davanti è una stanza con vari tavoli in legno e tovaglione
a quadroni. Poste e bicchieri che ricordano vagamente “Giggino
o'Zuzzus” a Napoli e vari clienti indigeni che ci guardano come se
gli avessimo ammazzato il figlio.
La cameriera
conosce tre (3) parole di inglese: “hello”, “good” e “please”
dopo un po' che noi fissiamo il menù in ungherese/tedesco arriva il
titolare ad illustrarci il tutto. Lui sa almeno sei parole d'inglese
ma con quello tanta gestualità e sorrisi generosi ci fa scegliere
del cibo. Io intercetto la parola salsiccia e (dopo aver avuto
conferma da Sara) la ordino.
Lui mi guarda -no,
no... small no good- con le mani mima un piatto tipo sottobicchiere.
Ci pensa un attimo mi prende il menù di mano guarda con aria critica
e poi indica un altra cosa
-Good, good super!-
tutto contento mentre con le mani simula la ruota di un tir.
Io che sarò anche
fesso ma gli occhi li tengo noto che le due cose sul menù si
chiamano in due modi diversi, costano diverso e una a sensibilmente
più parola dell'altra.
-but not is the
same.- ovvero, credo, “we bello ma è nata cos!”. Lui mi guarda
un attimo perplesso sorride.
-Yes, yes, good!
Super!- e smette di considerarmi rivolgendosi a Sara per sapere da
bere che vogliamo.
-Beer? Vine?-
chiede Sara. Alessandro capisce un attimo prima degli altri: è un
ristorante ebraico integralista qui l'alcool è bandito. Lui guarda
Sara sconvolto nota i tatuaggi che le serpeggiano dalla spalla al
gomito e dice qualcosa nella sua lingua che suona molto come “non
offendere i miei avi e la mia fede con i tuoi vizzi cane infedele!”
ma più cortese come quando un italiano prende per il culo la gente
in una terra straniera dove nessuno lo capisce.
Sara riesce a
contrattare: la scelta è tra l'acqua che abbiamo al tavolo e un non
specificato succo di frutta (tipo lamponi) che decidiamo tutti di
evitare. L'uomo sparisce, passa mezzora in cui l'unica pausa è la
cameriera che ci chiede se vogliamo del pane. Noi: si. Lei prende il
cestino dal tavolo del tizio affianco e ce lo dà.
Arriva il cibo,
nello specifico non ha quest'aspetto così invitante, il mio piatto
ricorda molto una distesa di riso in bianco con quattro meteore di
carne appallottolata zuppe di sugo. Mangiamo per paura di disonorare
ancora i nostri “rapitori”. Al tavolo affianco arriva un
giapponese solitario armato di iPhad. Il proprietario lo intrappola
subito, lui prova a chiedere qualcosa ma l'altro sta già elencando
le pietanze in ungherese mettendoci un bel “finisch” alla fine
così che lui capisca che non c'è speranza. Gli dice l'unico piatto
che è rimasto (il mio) e va via dicendo “super! Super! Wow, good!”
il giapponese non è
stato abbastanza lesto e si berrà anche il succo di lamponi che noi
abbiamo gentilmente declinato.
Finiamo, proviamo a
rifiutare il dolce che ci viene portato lo stesso in porzioni small
(ovvero mezza fetta a testa e hanno tutta l'aria di provenire da un
altro tavolo). Mangiamo anche quello un “e mamma mia quanto è
buono ed una fuga precipitosa dopo aver pagato un conto dove sono
contati i bicchieri d'acqua e le fette di pane.
Torniamo a casa
digeriamo chiamiamo il taxi e via verso l'aereoporto. Purtroppo
dobbiamo avviarci 6 ore prima dell'imbarco perché la casa va
liberata per i prossimi che arrivano. Io mi premuro di scrivere un
biglietto d'avvertimento sulle presenze paranormali in casa. Questo
ed altro per salvare delle vite.
All'aereoporto ci
accampiamo nell'unica area bar che si possa trovare al di qua dei
controlli. Fortuna vuole che incontriamo degli italiani che ci
aiutano ad incastrare le valige nel loro piccolo accampamento.
Loro sono lì d 24
ore avendo perso l'aereo. Sara che è donna furba e ne capisce si
poggia allo schienale e fa finta di dormire o dorme. Io sono
protagonista di una spaventosa conversazione quando il mio cervello
va in tilt a vedere uno sconosciuto che si rivolge nella mia lingua.
Non capisco niente rispondo a casaccio. Un attimo prima che le
guardie aeroportuali mi trascinino nel reparto psichiatrico i Aurora,
subito dietro di me scoppia a ridere attirando la loro attenzione.
Il resto della
permanenza lì sarà noioso come la morte per stenti.
Alessandro fa
chiaramente capire che Aurora è la ragazza sua e non è sul mercato
e se vogliono i tizi possono provare con il rottame che russa lì
accanto (una Sara in condizioni pietose dopo la sua esperienza
paranormale) ma cade vittima di un equivoco: uno dei tizi VUOLE LUI.
Le spiegazioni
vanno avanti per un po', sono confuse come questo post e molti
passaggi sono anche troppo azzardati ma il succo è: loro lavorano
per una società che offre servizi su internet. Tu entri con una
quota di 400 euro e loro ti danno da gestire un sito che (a quel che
ho capito) ti fa vendere contratti online alla gente per gas luce e
via dicendo. Tu ti prendi il guadagno della cosa ma passi una questua
a quello che ti ha fatto entrare. Alessandro declina gentilmente
l'offerta del grillino dell'economia.
Ci inbarchiamo,
decollo arrivo a Roma. Qui è successo qualcosa: l'amica di Sara (che
chiamerò Donata perché non mi ricordo) non riesce a trovare l'auto
di Sara con cui deve venirci a prendere. Tarderà di una mezzora e
alla fine arriverà con la sua splendida 500.
Siamo in 4 più
Donata.
Abbiamo 4 valige
piccole e un valigione.
Abbiamo una 500
per il resto il
viaggio in auto da Fiumicino a casa di Sara prende circa 10 minuti.
Lo stile di guida della nostra accompagnatrice si può definire in
decine di modi ma credo che il più adatto sua QUESTO.
Immaginate una strada bagnata, aria
fredda all'esterno, una tenue pioggerellina. Tre persone con le
valige in braccio quasi senza vedere nulla. E poi un tratto di
autostrada a 150 all'ora in una 500 senza manco vedere che succede.
A Gardaland farebbe furore come
cosa.
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