lunedì 11 giugno 2012

L'arte della Guerra

Uno tra i miei primi ricordi mi vede seduto davanti allo stereo di famiglia a fissare ammirato il nastro della cassetta di Bennato che girava. Quelle storie di pirati furono il primo Lego di un qualcosa che all'epoca credevo sarebbe andato avanti per sempre.

Eravamo dei piccoli monsoni. Le nostre mamme ci trattenevano a stento fino alle quattro di pomeriggio prima di capitolare per lasciarci scendere giù al parco.

Era una guerra, una guerra feroce tra le due fazioni primigenie dell'umanità: maschi e femmine. Quando ancora quelle parole significavano solo una diversificazione più che sufficente per giustificare la guerra. Bennato ci aveva reso involontariamente pirati, Ken shiro ci mostrò il valore della lotta e, successivamente, lo Hobbit ci insegnò l'epica.

La guerra si combatteva con bastoni di legno agirtati a mo di spade. In seguito una delle ragazze, Stefania, inventò l'artiglieria: lanciando grossi cocci di cermaica e sassi a chiunque si avvicinasse alla sua aiuola. Amico o nemico. Onestamente mi chiedo come abbiamo fatto a non morire nei modi più atroci e stupidi in quegli anni. Quando il caldo si faceva insopportabile la guerra si fermava in attesa di tempi migliori e per tenerci occupati allestivamo le nostre personalissime olimpiadi.

Quando iniziavano i giochi il raschiare delle ginocchia sbucciate diventava la colonna sonora del parco. Chi fa prima tre giri del parco di corsa. Dopo il primo giro io e Manuele, parecchio rotondetti, ci appostavamo per aggredire gli altri corridori. Ancora oggi Aurora e Luca litigano su chi arrivasse primo. Ci credevamo invulnerabili o qualcosa del genere. E forse lo eravamo. Francesco tentò una sua personalissima versione del giro della morte in bici rimediando un cocente fallimento e 24 punti dietro la testa. Io mi spezzai due denti in uno degli esperimenti di fisica elementare che eravamo soliti fare. In uno stesso esperimento Roberto guidò la sua bici diritta come un missile in una ringhiera sono per dimostrare che se leghi due bici con uno spago se la prima gira l'altra curva a sua volta.
Da guerrieri passammo a scenziati ci si chiedeva se una tal cosa era possibile e dopo pochi minuti di discussione la si metteva in pratica. Ancora oggi non posso guardare il muro che da sul vallone, trenta metri più giù senza pensare ad Aurora che quasi vola di sotto dopo un “incidente di percorso”. La stessa ringhiera che sfracellò la faccia di Roberto bloccò le sue caviglie un attimo prima del volo.
Quando ci facemmo più grandi scoprimmo cose strane. Le femmine non facevano più così schifo come prima ed anzi, eravamo gelosi delle nostre nemiche. Quando il giovane Cristiano ed i suoi capelli biondi alla Nino d'Angelo fece strage di cuori durante la via crucis io e Manuele procedemmo al una rappresaglia a base di big babool. Quando le nostre madri ci permisero di nuovo di uscire la sua testa rasata di disse che ne era valsa la pena.

Da qualche parte ho ancora le cinquemila lire che Francesco ci pagò per il possesso dell'aiuola più grande solo per vedersela poi conquistata il mattino seguente.
Eravamo stupidi ma all'epoca il mondo non ci toccava minimamente. I fatti di Chernobyl per noi erano solo una scusa delle nostre madri per tenerci in casa. Ma tutto finisce.
Forse finì quel pomeriggio in cui io e Manuele armati di bomber nero lucido e di centomilalire trovate per terra venimmo rapinati nelle viscere di Vico Paradiso dopo una serie di giocate totalmente prive di furbizia.
Ma forse finì poco prima. Quando, come veterani del vietnam, ci rendemmo conto che il nemico in fondo in fondo ci piaceva. Forse finì col fidanzamento più breve della storia nato dalla dichiarazione più semplice, e parecchio ridicola, mai proferita.
O forse finì molti anni dopo quando quasi maggiorenni giocavamo ancora a pallone vicino al cancello prima di uscire il sabato sera. Aurora con tacchi e gonna che non si tirava indietro da un tiro a porta e Luca abile come al solito a crossare i palloni giù nel vallone. Ce ne accorgemmo solo dopo che qualcosa di alieno era subentrato. La malattia, la morte, un monito di qualcuno a ricordarci che le cose belle finiscono.
Noi non potevamo farci nulla, se non godercele

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